Studio di psicologia ALISE'

Non puoi essere te stesso, se non sai prima chi sei" Neruda   

Non chiamiamolo “svezzamento”: aspetti psicologici connessi all'introduzione dell'alimentazione complementare nella prima infanzia

Si dibatte molto oggi, sul tema dell'allattamento e dello "svezzamento".
Così come si ritiene prezioso l'allattamento al seno, emerge la necessità di rispettare la volontà o possibilità di una donna di non offrire il suo seno. La donna, la madre, non è il suo seno.
Il nutrimento non è solo un liquido, ma un'esperienza. 
Ecco perché l’importante non è il seno, né il biberon. L’importante è l’unicità dell’ esperienza della relazione che si sperimenta.
Riprendendo Recalcati ( 2015) il seno è il segno di qualcos'altro, e questo altro è il modo in cui lei,   donna unica, ama e riesce a donare a quel figlio l'esperienza di essere un figlio “UNICO”, nel senso di essere una creatura straordinaria, come unica e straordinaria è la loro relazione.
Questo segno d'amore è nutrimento; nel caso dell'allattamento al seno coincide con il modo in cui il seno viene offerto, con i sentimenti  che questo genera e con il linguaggio (a volte delle mani e di tutto il corpo) che si sviluppa tra la madre e il figlio durante l'allattamento.
Dunque il nutrimento va oltre il latte, così come l'essere madre va oltre il “seno”.
Tutto ciò rende più facile comprendere cosa davvero accade quando si inizia ad introdurre l'alimentazione complementare. Perché in alcuni casi questo momento rappresenta una fonte di preoccupazione o di difficoltà. Perché il nutrimento e il modo in cui viene dato non è un fatto esclusivamente biologico. 
Un bambino non è solo un corpo, come la madre non è  solo il suo seno. 
Il nutrimento non coincide con il latte in sé, né con la biochimica del cibo. Certo, esso è essenziale, ma il cibo è da subito veicolo di significati, affetti e questo è il motivo per cui può essere difficile, per l'adulto prepararlo, donarlo e per il bambino riceverlo,assimilarlo e digerirlo.
Lo sanno alcune bambine anoressiche quando, riprendendo Recalcati (2015), rifiutano il cibo nel tentativo di ricevere un altro tipo di nutrimento dalle loro figure di attaccamento. E di questo tipo di nutrimento hanno una  “fame da morire” (Schelotto, 1992).
In questo senso, lo svezzamento non può essere semplicemente uno “svezzamento”.
Pensiamo al significato etimologico, dove il termine “svezzare” significa “far perdere il vezzo, l'abitudine”. Ho provato inquietudine nel pensare che ad un certo punto, la madre (o chi per essa) debba pensare che da quel momento in poi, da quel cucchiaino in poi, il figlio debba “perdere” ciò che è stato prima, considerandolo un “vezzo”, un vizio.
Quel prima, che è tutta la sua storia.
Il termine “svezzamento” suona come “spezzamento”.
Ecco, la crescita non può procedere per “spezzamenti”. Lo sa chi in terapia racconta di come nel momento in cui le relazioni vengono spezzate, tagliate, esse non possono né continuare e neanche finire.
La crescita, lo sviluppo procede per esperienze, talvolta anche attraverso regressioni e “salti all’ indietro”.
Nel caso dell' “alimentazione complementare” l'esperienza sta nell' introdurre il figlio al mondo dei sapori, delle consistenze, delle sue sensazioni endogene, del sapore, del palato, dei muscoli, del prendere contatto con ciò che sta dentro di lui e fuori di lui.
Questa è per lui un'esperienza straordinaria, che può vivere con stupore e meraviglia oppure come  un pericolo.
L'adulto ha il compito di accompagnare il figlio in questo mondo, ma per farlo deve ascoltare e osservare. Non solo il bambino, ma anche sé stesso.
Deve capire se il bambino può essere pronto, interessato ad iniziare questo viaggio. Punta il cibo? Scalpita, è interessato? Sta ben seduto? E poi, preferisce inizialmente stare in braccio mentre assaggia? E' tranquillo sul seggiolone? Per quanto tempo? Etc.
E il genitore? E' pronto il genitore? Cosa evoca in lui iniziare a proporre il cibo solido al proprio figlio?  Come si sente nel vederlo su quel seggiolone? Come è il suo rapporto con il cibo? Come è stato trasmesso a lui il nutrimento dai propri genitori?
Se il cibo è un veicolo di emozioni e significati, esso va introdotto considerando e riconoscendo tali emozioni e tali significati.
Il cucchiaino rappresenta il veicolo del passaggio del nutrimento tra il genitore e il figlio. Il cucchiaino rappresenta il passaggio tra l'essere vicini e l'essere lontani, la possibilità di andare e venire. E' l'altro che si avvicina, rilascia il nutrimento dentro di me , il lo assaporo, lo assimilo, mi lascio attraversare dalla presenza dell'altro, che poi si allontana e che poi ritorna.
Questo è ciò che succederà in ogni relazione futura di quel bambino:  “l'altro mi dona la sua presenza e poi mi dona la sua assenza e in questo andirivieni, io cresco e mi evolvo. Sperimento l'amore e la cura, verso l'altro e verso me stesso”.
Dunque, questo può essere vissuto con ansia se io, adulto, sento che deve essere lo “spezzamento di un vizio”, una improvvisa e prestabilita presa di distanza dal figlio. Posso sentirmi frustrato, inadeguato se questo non mi riesce. Arrabbiato, perché questo non riesce.
Cosa evoca, in me genitore, il fatto che mio figlio tocchi ed esplori il cibo con le mani e si sporchi?Posso tollerarlo? Mi infastidisce?
E dunque io genitore devo ascoltare, devo poter ascoltare me stesso e “quel” bambino, che è unico come unico il modo in cui  io e lui insieme scopriremo il mondo e la danza della nostra relazione.
Dunque potrei scoprire che io, genitore, mi sento maggiormente a mio agio, ad esempio nel  tenere inizialmente il bambino vicino a me, sulle ginocchia mentre lui esplora una mela o il cucchiaino vuoto. Per poi pormi solo successivamente di fronte a lui  e guardarlo in volto, e permettere a lui di guardare me, mentre il cucchiaino si muove nello spazio tra di noi, veicolando un sapore nuovo da un piattino che lui può vedere, alla sua bocca.  Oppure potrei scoprire altri modi ancora, con cui  noi due insieme, possiamo trovare un nostro modo per vivere questo passaggio, questa prima importante fase di crescita.
Insieme, facciamo esperienza della possibilità di sperimentare distanza e vicinanza. Non più un seno (o la tettarella di un biberon) tutto dentro la bocca che rilascia sapore attraverso i movimenti controllati e regolati dal bambino, ma un oggetto esterno (un cucchiaino) che non controlla lui, ma che obbligatoriamente passa attraverso l'azione e lo sguardo di qualcun'altro.
Le madri  devono avere la possibilità di prepararsi nel gestire la profondità, la vastità e variabilità dei significati connessi a questo delicato passaggio di crescita,  affinché possano sviluppare minori sensi di colpa e si sentano più legittimate a seguire il loro istinto, al di là di ciò che è scritto nella guida sullo svezzamento, del consiglio o della ricetta fornita dell'esperto.
Pensiamo agli effetti dell'allattamento ad orario. Quando una madre abdica alla possibilità di rispondere alle richieste del figlio, di fatto rinuncia alla possibilità di sintonizzarsi con i bisogni del figlio (oltre che con i suoi) e di conoscerlo, riconoscendo i segnali e imparando a tradurre il linguaggio del figlio. Il risultato spesso coincide con un senso di inadeguatezza, di frustrazione sia nella madre che nel bambino.
Qui è in gioco qualcosa di più del “cibo”, è in gioco la relazione, che inizia a giocarsi proprio da questo scambio nel mondo, di cui il cibo non è che un veicolo.
Ritengo che bisogna essere cauti nell'interporsi nella relazione diadica madre-figlio attraverso regole, metodi, prescrizioni ed orari. Ritengo che l'approccio prettamente pedagogico che esula dalla specificità e complessità delle persone, non solo possa essere inutile ma anche dannoso.
E' più faticoso, ma anche più utile, incoraggiare i genitori ad osservare, ascoltare il bambino e loro stessi.
Personalmente ritengo che l'introduzione dell'alimentazione complementare sia anche una questione di gestione del confine personale all'interno della relazione. Nell'andirivieni di quel cucchiaino il genitore definisce i limiti del confine corporeo e psicologico, tra sé e il figlio e soprattutto, come ci si può muovere in quel confine.
Se il bambino rifiuta di mangiare, e l'adulto lo forza,  il bambino sperimenta una violazione del suo confine. Sperimenta che anche se lui chiude la bocca, l'altro impone la sua presenza e dunque quel bambino non ha il permesso per esprimere i suoi bisogni e sente che il suo confine non può essere rispettato, seppure lo richiede.
Il genitore che accetta il limite di quel bambino, pur senza comprenderne le ragioni e magari  accetta di distrarlo per un po', di rinunciare a quel suo “mandato” di cibarlo a tutti i costi, per alcuni minuti, per poi tornare successivamente a proporre in un modo nuovo, un nuovo sapore, ha implicitamente detto al figlio e a sé stesso: “Io ascolto. Io ho rispetto i tuoi tempi come dei miei, delle nostre emozioni, dei nostri bisogni”.
Il bambino e il genitore non solo avranno imparato a mangiare, ma a nutrirsi l'uno della presenza dell'altro e a godere di questo.
Tutto questo è più facile se crediamo che i figli abbiano bisogno del nostro amore e del nostro particolare modo di essere persone, molto più di quanto  abbiano bisogno delle nostre idee.

 Dott.ssa Milena Cammilleri
  Psicologa Psicoterapeuta